giovedì 6 gennaio 2011

Napoleone, la Musica, Cherubini e l'arte di dire “No”

Che musica piaceva a Napoleone? Soprattutto l'Opera italiana, chissà se per retaggio delle origini toscane dei Buonaparte, o più semplicemente perché la facile cantabilità delle scuole musicali della penisola seduceva (e seduce) l'orecchio più della macchinosità della tragédie lyrique e della astratta perfezione del sinfonismo tedesco. E il preferito in assoluto era Paisiello: la dolce malinconia delle sue cantilene, di cui l'Aria “Nel cor più non mi sento” tratta da “La Molinara” (1788) è un perfetto esempio, fu particolarmente gradita all'orecchio e al cuore del Bonaparte, che nel 1802 volle il tarantino come musicista di corte alle Tuileries. L'ormai anziano Maestro fece però in modo, giustificandosi con motivi di salute, di sottrarsi agli onori e agli oneri connessi alla carica, ottenendo di poter tornare nel regno di Napoli già nel 1804.
Altro musicista prediletto fu Gaspare Spontini; tanto Paisiello fu schivo verso gli allori elargitigli dal potente protettore, così Spontini ne fu abile catalizzatore, in virtù sia di una indubbia capacità di contemperare nelle sue musiche le esigenze celebrative con una elevatissima qualità estetica; sia di un carattere quant'altri mai adatto a cogliere i vantaggi della vita di corte. “La Vestale”, di cui è in programma la commovente Aria di Giulia “Ah, des infortunes”, è senz'altro il titolo che più consolidò la sua fama, nonché paradigmatica declinazione musicale di quel neoclassicismo che per un quindicennio fu la cifra distintiva delle arti di tutta Europa.
Come Spontini seppe essere cantore dei fasti dell'Impero, altrettanto Cherubini lo fu delle turbolenze del Direttorio e del Consolato, con i suoi drammi vibranti di romanzesche vicissitudini e accesi contrasti, dalle pièce à sauvetage “Lodoiska” e “Les deux journées” alla cupa tragedia “Medée”. Da quest'ultima ascolteremo oggi “Solo un pianto”, l'Aria dell'ancella Neris, e già dall'intensità di questo brano affidato a un personaggio secondario possiamo renderci conto della spasmodica tensione emotiva che attraversa tutta l'Opera. Cherubini si dedicò anche alla musica strumentale; oltre a una Sinfonia e ai tardi Quartetti per archi, compose anche, ventenne, sei Sonate per cembalo o fortepiano; certo ciò che il maestro fiorentino immaginava alla tastiera non è paragonabile né alle delizie mozartiane, né agli spavaldi virtuosismi di Muzio Clementi. Egualmente, la purezza di certi inattesi squarci di lirismo, la sicura consecutio dei fraseggi, l'originalità di alcuni percorsi armonici, tutto ciò ci rivela anche in queste pagine oneste e semplicette la mano sicura dell'Artista di prima grandezza. Di Luigi Cherubini ci piace qui ricordare, assieme alle virtù musicali, anche quelle del carattere: fu uno dei pochi infatti a saper dire di “no” a Napoleone quando questi, in un incontro avvenuto a Vienna nel 1805, gli chiese di tornare a Parigi al suo seguito; l'orgoglioso maestro preferì rifiutare, memore di alcuni appunti mossi dal sovrano alla sua musica. L'atteggiamento del Bonaparte verso Cherubini fu del resto sempre ambivalente: da un lato ne ammirava la maestria, dall'altro non ne tollerava la ruvida ritrosia del carattere e la severa compostezza dello stile musicale. Quasi a compensare questa disistima, a Vienna Cherubini fu onorato dalla benevolenza, ben più lusinghiera per un musicista, di Ludwig van Beethoven. Nei confronti di Napoleone, Beethoven passò, come è noto, dall'entusiasmo per chi sembrava essere il Liberatore dei popoli dalla tirannia, al disprezzo per l'ambizioso che con l'Impero tradiva i principi della Rivoluzione. Esemplare di questo percorso è la vicenda della dedica dell'Eroica al Bonaparte, prima vergata sul frontespizio della Sinfonia e poi furiosamente cancellata il giorno dell'auto-incoronazione in Notre-Dame; le Variazioni op.35 elaborano lo stesso Tema che fungerà da Finale nella Sinfonia Eroica, e che in precedenza era stato un numero del balletto “Le creature di Prometeo”.
Il Prometeo beethoveniano è un demiurgo capace di infondere energie che di volta in volta esaltano fino all'ebbrezza o spaventano fino al terrore, e sicuramente tra il mito illuminista del Titano capace di liberare l'umanità dalle catene dell'ignoranza e della superstizione, e quello napoleonico dello “spirito della Storia” che spazza via ogni ordine costituito, l'affinità doveva risaltare in modo immediato e convincente. E il mito napoleonico, in una versione in verità più mercuriale che prometeica, parve trovar realizzazione anche in ambito musicale quando comparve, rapido e fulgido, l'astro di Gioacchino Rossini. Celebre è la definizione stendahliana, poi ripresa da Giuseppe Mazzini, di “Napoleone della musica”, a sottolineare la facilità con cui il pesarese conquistava i teatri d'Europa, nonché la brillante sprezzatura con cui la sua orchestra rivoluzionava le pigre abitudini dell'opera italiana. L'irresistibile ascesa di Rossini inizia con i debutti veneziani del 1812/13, ovvero gli stessi anni dell'inesorabile declino di Napoleone in seguito alla disastrosa campagna di Russia (circa un milione di morti tra soldati della Grande Armée e militari e civili russi, inutile strage che bisognerebbe sempre ricordare per non indulgere a tentazioni acriticamente celebrative). L'Italia in quegli anni ha ormai compreso che nessun “liberatore” straniero potrà giovare alla causa della sua indipendenza, e che solo il sorgere di nuovi ideali e di energiche iniziative per realizzarli potrà compiere l'ormai da molti auspicata impresa di risorgere a Stato unitario. E' in questi anni, parallelamente allo sviluppo di questa nuova consapevolezza, che il melodramma diviene luogo privilegiato per la condivisione di un comune sentire patriottico: quando le Isabelle o i Tancredi declamano“O Patria!...”, un nuovo pubblico di Italiani coglie in queste parole se non una chiamata alle armi, quanto meno un esplicito invito a tenersi pronti per un futuro prossimo di riscatto e di libertà; così da poter senz'altro ritenere che, nella Venezia del 1813, l'Aria di Tancredi “Di tanti palpiti” meritò il suo enorme successo non solo per la perfezione delle sue simmetrie, bensì anche perché il “Napoleone della musica” aveva saputo conquistare i cuori del suo pubblico a discapito del Napoleone invasore straniero.
Il mito napoleonico si nutrì anche della magnificazione delle qualità sovrumane, superomistiche del condottiero, così che possiamo ben dire che molti eroi del romanticismo sono debitori alla figura, reale o idealizzata, del Bonaparte. Ed eroe romantico per eccellenza in campo musicale fu senz'altro Niccolò Paganini: l'aneddotica si spreca su questo straordinario virtuoso, capace di strappare al violino ciò che nessuno aveva mai pensato si potesse osare, e che tutt'oggi pochi riescono a realizzare. La Sonata “Napoleone” pare sia frutto di una giocosa sfida che Paganini ricevette da Elisa Bonaparte, mentre era musicista di corte nel principato di Lucca; la sorella dell'Imperatore, ingelosita dalla dedica a una nobildonna di una Sonata scritta da Paganini per sole due corde del violino, ritenne di dover rimarcare il suo maggior rango rispetto alla rivale esigendo dal virtuoso un'altra Sonata, da eseguirsi su un'unica corda. Impossibile? No, nulla sul violino era impossibile per il Genovese, ed ecco a dimostrarlo la Sonata oggi in programma, per eseguire la quale la fulminea prestidigitazione del nostro ottimo Piercarlo Sacco dovrà, napoleonicamente, tener dietro al baleno.

Nessun commento: