martedì 11 ottobre 2011

Ci vorrebbe orecchio

Un breve omaggio alla memoria di Cesare Augusto Tallone, scritto in occasione di una mostra presso la Galleria Bolzani di Milano
Il pianoforte è una macchina che suona; per Cesare Augusto Tallone, figlio del pittore Cesare, doveva essere una macchina che canta, perché per lui era in questa necessaria affinità con l'emissione vocale che poteva sostanziarsi la peculiarità di una via italiana al pianoforte. Proteso a questo ideale, tutta la sua attività di costruttore e accordatore fu volta alla ricerca di quella ricchezza e rotondità di armonici che potesse nascondere, o almeno ingentilire, la durezza della percussione del martelletto sulla corda, principio della fonazione pianistica ma anche di essa irredimibile peccato originale.

E ci riuscì: suonare uno dei suoi pianoforti, dal più piccolo verticale al più maestoso gran coda, produce immediatamente una voce pura, dolce e intensa a un tempo, trasmettendoci delle good vibrations non dissimili da quelle di tante voci italiane del passato, da Beniamino Gigli, a Renata Tebaldi, a Ettore Bastianini, a seconda di quale registro della tastiera si voglia esplorare. E pur non avendone avuto, purtroppo, esperienza personale, non faccio fatica ad immaginare come lo stesso piccolo grande miracolo di intonazione dovesse avvenire con qualunque pianoforte fosse preparato dal prodigioso, leggendario orecchio di Tallone, sul quale si creò una varia, e veritiera, aneddotica, che ne consolidò la fama di insostituibile collaboratore dei più grandi pianisti della sua epoca, primo fra tutti Arturo Benedetti Michelangeli.

Altri tempi, vien da aggiungere. In tempi come i nostri in cui gli strumenti musicali, così come le persone, sembrano tendere al totale annullamento di ogni individualità, cosa avrebbe da dire Tallone? Forte di quell'energico ottimismo che sprigiona da ogni pagina della sua biografia credo saprebbe spronarci a mantenere vivo il suo ideale sonoro, a volerci dotare di una voce così protesa all'espressione del nostro animo da essere inadatta all'insulso chiacchiericcio.

Per fortuna questa sua preziosa eredità non è perduta: molti dei migliori accordatori discendono per li rami, in un modo o nell'altro, dalla lezione del suono Tallone; e se l'idea di un pianoforte da concerto italiano sta, pare, trovando una nuova realizzazione, non andrebbe dimenticato che anche ciò è in gran parte diretta o indiretta conseguenza delle idee e della attività di Tallone. Così come se tanti pianisti, come inadeguatamente ma pervicacemente anche il sottoscritto, cercano con ogni nota di trasformare i moderni, insipidi “cembali tintinnanti” in macchine che cantano capaci di emozionare, anche per questo dobbiamo rivolgere un grato ricordo a Tallone.

Perchè nella musica, ma non solo, ci vuole orecchio per fare qualcosa di buono e, come recita un proverbio milanese caro a Tallone , “chi ga' minga d'oregia, el po vess anca cativ!”. Lancio una proposta: e se prima del pareggio di bilancio mettessimo nella nostra Costituzione l'obbligo di verifica dell'orecchio di chi voglia governarci?

Luca Schieppati

martedì 19 aprile 2011

Verdi, colonna sonora del Risorgimento

Garibaldi che, prima di imbarcarsi con i Mille, intona arie di Mercadante con la sua bella voce baritonale; Cavour che, appreso della dichiarazione di guerra austriaca che dà l'avvio alla seconda guerra d'indipendenza, canta a squarciagola “Di quella pira/L'orrendo foco”; Giuseppe Mazzini che, per riprendere il filo del suo progetto politico dopo i fallimenti nei moti degli anni '30, scrive una Filosofia della musica dove auspica l'avvento di un Nume ignoto capace di portare a compimento la trasformazione del melodramma da arte aulica ed elitaria a opera popolare e nazionale. Sono solo dettagli, certo, nell'insieme degli eventi risorgimentali; ma dettagli che, con l'immediatezza di una tranche de vie o l'evidenza di una esemplarità didascalica, ci rammentano come il felice esito del Risorgimento non sia stato solo il risultato di abili manovre politiche e fortunate (a volte fortunose) azioni militari: se gli ideali di libertà e indipendenza divennero comune sentire per un sempre più ampio numero di uomini e donne della penisola, fu anche e soprattutto per il sedimentarsi nella mente e nel cuore degli italiani di un insieme di valori che le arti coeve propugnavano con entusiasmo e convinzione. E in particolare fu il melodramma il veicolo privilegiato nella divulgazione di una ideologia patriottica, sia per la centralità del teatro musicale in un Paese in cui la letteratura era ancora fenomeno elitario, sia per l'oggettiva affinità tra gli intrecci di tante Opere e alcuni dei punti essenziali di quel “discorso nazionale” individuato e riassunto dallo storico Alberto Mario Banti nella triade Parentela, Santità, Onore.
Il teatro verdiano è con tutta evidenza il culmine del processo che possiamo definire di “politicizzazione” del melodramma, nel senso di una tacita intesa tra pubblico e autori in un gioco di similitudini e di più o meno esplicite allusioni nel quale non vi era frase o situazione melodrammatica che non si prestasse a essere interpretata come esortazione a un pugnace patriottismo. L'estrema sensibilità per lo spirito dei tempi, insieme alla sincera condivisione degli ideali risorgimentali, permisero a Verdi di cogliere i diversi umori, le speranze e le delusioni, la fiducia e la disperazione che le mutevoli vicissitudini della nostra epopea nazionale di volta in volta suscitavano, così che, dopo i furibondi ardori guerreschi e gli struggenti aneliti alla libertà perduta presenti nelle opere del periodo fino al 1849, negli anni successivi, segnati dalla paziente diplomazia cavouriana, troviamo lavori più maturi e riflessivi, da “gran tessitore” di intrecci perfettamente condotti verso un risolutivo punto culminante; e dopo la proclamazione del Regno, negli anni della “questione romana”, ecco la disincantata analisi dei rapporti tra potere temporale e potere religioso del Don Carlo; e, onde fosse ben chiaro che si era disposti a tutto, ecco anche le grevi e bellicose “Arie di reclutamento” di Preziosilla.



L'antologia verdiana di questa sera, impaginata appositamente in occasione della mostra “Hayez nella Milano di Manzoni e Verdi”, evidenzia, nel contesto di una cronologia musicale parallela alle vicende del Risorgimento, alcuni dei punti di contatto che avvicinarono la musica di Verdi a Francesco Hayez e ad Alessandro Manzoni. Tre i melodrammi verdiani dai cui soggetti già Hayez aveva preso spunto: I Lombardi alla prima Crociata (1843), I Due Foscari (1844), e i Vespri Siciliani (1855). Ad aprire il concerto, con lampante intento apotropaico, la trascrizione per pianoforte di Franz Liszt della preghiera di Giselda dal primo atto dei Lombardi,“Salve Maria”; nelle intenzioni di Verdi e del librettista Solera l'incipit avrebbe dovuto essere, con più icastica semplicità, Ave Maria”; la rettifica fu imposta dalla bigotta censura austriaca, che non gradiva si declamassero parole della liturgia cattolica sui peccaminosi palcoscenici di un teatro. Quarantaquattro anni dopo, nell'Italia libera, unita e laica, Verdi e Boito poterono scrivere per Desdemona una “Ave Maria” senza problemi di censura, così che ai detrattori del Risorgimento possiamo almeno obiettare che poter chiamare le cose con il loro nome è pur sempre un progresso.

Ascolteremo in trascrizione pianistica anche alcuni brani dai Due Foscari, assemblati in una Fantasia brillante da Adolfo Fumagalli, pianista di successo nella Milano di Verdi, Hayez e Manzoni, coccolato dai salotti della nobiltà meneghina, stimato dallo stesso Liszt che lo definì artista “di prim'ordine”; un astro nascente, insomma, che fu invece sfortunata meteora per una malattia che lo stroncò a soli ventotto anni.

Dai Vespri siciliani si è scelta la seconda delle tre Arie di Elena, una palpitante cantilena di ascendenze schubertiane (impossibile non notare la somiglianza con il Lied Ständchen) che esprime il tormento di una donna divisa tra le ragioni del cuore e i doveri verso la Patria.



I rapporti di Verdi con Manzoni, al di là della personale conoscenza avvenuta tramite la comune amicizia con la contessa Clara Maffei, sono soprattutto segnati da ciò che non avvenne e avrebbe potuto avvenire; alludo, naturalmente, al mancato incontro della musica di Verdi con il romanzo manzoniano, evento che indubbiamente sarebbe stato un vero culmine nella storia artistica dell'800 italiano. Siccome però la storia, neanche quella artistica, si è mai fatta con i se, è inutile indagare i motivi di tale “atto mancato”; stiamo contenti al quia, e per avere un esempio di ciò che sarebbe potuto nascere da tale incontro al vertice appaghiamoci dell'intensità di “Sgombra, o gentil”, breve Romanza che Verdi scrisse nel 1858 come dono per l'amico Melchiorre Delfico, musicando sei versi dell'Adelchi. Ultimo, postumo punto d'incontro tra i due Grandi, è il Requiem che Verdi scrisse nel 1874 per celebrare il primo anniversario della morte di Manzoni, nobile e possente testimonianza di come il non credente Verdi abbia saputo rendere omaggio alla fede manzoniana. Del Requiem verrà eseguito l'Agnus dei, nella trascrizione per pianoforte o armonium di Franz Liszt.



E sempre di Liszt sono le altre trascrizioni e parafrasi in programma: dal Quartetto del Rigoletto, dal Miserere dal Trovatore, dalla scena dell'autodafé del Don Carlo. Franz Liszt, di cui ricorre quest'anno il bicentenario della nascita, è legato a questo concerto non solo per le sue sontuose trascrizioni verdiane, bensì anche per essere stato uno dei più autorevoli estimatori dei pianoforti Érard, due esemplari dei quali, provenienti dalla collezione Giulini, utilizzeremo per il nostro concerto. Anche Verdi ebbe un Érard, così come Rossini, Wagner e tanti altri. Ne ebbe uno anche Adolfo Fumagalli, che lo ricevette in dono da Érard in persona, in segno di stima e ammirazione.

Verdi, che non era certo pianista virtuoso (fin troppo noto l'episodio della sua bocciatura all'ammissione come allievo di pianoforte presso il Conservatorio di Milano: prima di scagliare l'ennesima pietra sui professori che l'esaminarono, chiediamoci anche come se la cavasse alla tastiera il Bussetano), arrivò al moderno ed efficiente Érard solo dopo il 1870; in precedenza componeva su un fortepiano viennese un po' d'antan, di Johann Fritz, di cui anche la inesauribile collezione Giulini ci fornirà un esempio questa sera; la voce delicata e tintinnante di questo raro, prezioso strumento (tasti bianchi in madreperla, tasti neri in tartaruga, un brivido da Re Mida ci percorre suonandolo) intonerà gli unici due brani scritti da Verdi per il solo pianoforte: un Valzer, reso celebre nel XX secolo da Nino Rota che lo utilizzò come colonna sonora per il Gattopardo di Luchino Visconti; e una Romanza senza parole, datata 1844, probabilmente omaggio galante del giovane Verdi a una nobildonna romana.



Come ben disse D'Annunzio, Verdi fu colui che “pianse ed amò per tutti”. Ma seppe anche sorridere: e a riprova di questo, non potendo radunare questa sera l'intero cast di Falstaff per cantare “Tutto nel mondo è burla”, proporremo lo Stornello, romanza da camera del 1869 su dei versi maliziosi e anticonformisti che ci rivelano le frequentazioni “scapigliate” di Verdi anche prima delle collaborazioni con Arrigo Boito. L'autore del testo preferì restare anonimo, forse per prender le distanze da pose, per l'epoca, un po' troppo disinvolte: in quattordici endecasillabi (si chiama Stornello, ma in realtà è un Sonetto) una spigliata voce femminile enuncia i suoi princìpi di donna emancipata:



Tu dici che non m'ami... anch'io non t'amo...

Dici non vi vuoi ben, non te ne voglio.

Dici ch'a un altro pesce hai teso l'amo.

Anch'io in altro giardin la rosa coglio.


Ma non credo che l'intrigante Stornello scandalizzasse alcuno: insomma, l'Italia era fatta, bisognava pur fare gli italiani...

Luca Schieppati

Servi, Padroni o Vesponi?

Dura la vita dei Padroni; quanta fatica, quanta responsabilità nell'essere a un tempo guida e deterrente, bastone e carota, esempio da emulare sebbene irraggiungibile. Pensate, quante difficoltà, quanti dispiaceri, in queste vite votate al lavoro (degli altri) e al buon funzionamento di insiemi complessi (famiglie, aziende, su su fino a società e stati) che, è evidente, senza di loro crollerebbero come castelli di carte, o meglio si affloscerebbero come maionesi mal frustate. Come non capirli, dunque, i Padroni, se alle volte cedono a qualche tentazione, se assecondano qualche debolezza? Niente di più naturale, di più umano. E, pur non avendo alcuna esperienza al riguardo, alieno come sono da ogni brama di comando, ho come il sospetto che la tentazione più grande per chi è Padrone sia quella di poter divenire come i propri Servi, cioè i veri privilegiati, persone senza pensieri o preoccupazioni, perchè qualcuno ha già provveduto a inserire le loro vite in un Cosmo ordinato, rotelle in un ingranaggio, o chicchi di riso nel risotto che altri, i Padroni appunto, mangeranno; immagino con che gioia un Padrone si abbandonerebbe alla deriva di una obbedienza cieca e animalesca, per provare finalmente quella rilassante sensazione di spensieratezza, quella sana allegria senza retrogusti, da assaporare nella pienezza di una vita tutta assorbita dal presente, anziché dispersa in magnifici e progressivi progetti da realizzare, o meglio da far realizzare, in un futuro prossimo o remoto da ignave, se non riottose, risorse umane. Ma come fare? In che modo un Padrone può realizzare un simile inespresso desiderio senza apparire insano di mente? Ma naturalmente divenendo Servo d'amore, ovvero schiavo tra le debolezze di quella che più comprendiamo, che più perdoniamo e spesso anche invidiamo. E, meglio ancora, Servo amoroso di chi a qualunque titolo sia stato suo servitore: che emozione, che ebbrezza allora, dimostrare il proprio potere cedendolo a chi è solito obbedirci! Adoperare tutta la propria esperienza e competenza nel dominio per farsi meglio dominare, approntarsi un proprio personale contrappasso già qui sulla terra, aggiungendo alle altrimenti banali e ripetitive faccende erotiche anche quel senso di onnipotenza che dà il poter dire: “Mi sono rovinato con le mie stesse mani”! Ecco, credo che questa attrazione tra due ruoli che si vorrebbero contrapposti e inconciliabili, descritta con un'enfasi scherzosa che spero mi si perdonerà (soprattutto perché, con un argomento simile, a parlar seriamente avrei rischiato di inoltrarmi in un impervio côté sadiano-intellettual-psicanalitico del quale io per primo non mi sarei perdonato), sia una delle possibili chiavi di lettura dell'operina che oggi mettiamo in scena, oltre che, ça va sans dire, di alcune poco edificanti vicende di cronaca. Attrazione reciproca, s'intende, giacché nel mentre che il Padrone agogna lo stato di Servo, il Servo (o la Serva) anelano a farsi padroni. Così che, dopo poche battute della storiella di Serpina che da serva diviene padrona riuscendo a farsi sposare dal vecchio brontolone Uberto, capiamo che i due ruoli sono del tutto intercambiabili, e che entrambi rientrano in quel retaggio umano, troppo umano che condividiamo con tutti i nostri simili. Alla luce di tale valenza esemplare, archetipica del pur semplicissimo intreccio, ci siamo quindi permessi di attualizzare, nelle essenziali scene e negli abiti degli interpreti, l'azione immaginata dal librettista Gennarantonio Federico, sicuri che nulla andrà perso della sua intelligibilità. Ma se c’è un particolare che più connota la nostra versione rispetto ad altre non è certo questa ambientazione moderna, ormai pressoché abituale per tutto il repertorio operistico; bensì, piuttosto, il rilievo dato a Vespone, personaggio che non canta né parla, nel libretto indicato come “servo di Uberto” ma capace di far valere la propria individualità facendosi complice di Serpina nell'indurre il riluttante (ma non troppo) padrone al matrimonio. E’ un’idea scenica che, nata dall’intenzione di affidare più spazio possibile alle esilaranti trovate del Freakclown che sosterrà la parte, si è man mano imposta anche come efficace modo di suggerire la possibilità, vorrei dire la necessità, di una “terza via” tra i due ruoli eponimi: troppo a lungo ci si è riconosciuti e divisi in Servi e Padroni; talora, beffa che si è unita al danno, anche ipocritamente mascherando la cruda realtà di tali funzioni con travestimenti linguistici, come se la political correctness potesse mai mutare la brutale sostanza delle cose. E se cominciassimo invece tutti a voler essere un po' Vesponi, incapaci sia di servire che di comandare, allegramente anarchici, irresponsabilmente ridanciani? Forse saremmo più felici e faremmo meno danni al prossimo; e sicuramente aggiungeremmo alla causa della felicità umana una di quelle risate libere e sonore che, prima o poi, dovranno pur seppellire qualcuno.
Luca Schieppati


Ora, elabora! -Note per un Amico

Si può parlare dell'indicibile? Oppure è meglio limitarsi a obiettivi, quasi distaccati resoconti dei fatti e, seguendo l'esempio di Amleto, lasciare che “il resto” sia “silenzio”1? Se anche accettiamo l'elusiva massima amletica e manteniamo latente e sottinteso quel margine inemendabile di incomprensibilità che la condizione umana porta con sé, evitando così – speriamo - di cadere nel banale, nel retorico, o peggio ancora nella autocommiserazione sotto specie di commemorazione; ciononostante, fuori da quel “resto” rimane comunque inappagato un bisogno insopprimibile, un prezzo da pagare al nostro dover sopravvivere facendo i conti con una assenza, con un lutto che, come ci spiegano gli psicoanalisti, in qualche modo dobbiamo riuscire a elaborare. Elaborare, operazione che dovrebbe trasformare le cose in altro da quel che sono inizialmente, auspicabilmente migliorandole. Nel caso di un lutto, stante l'evidenza di non poter agire sull'oggetto di esso, dobbiamo concentrare il nostro lavoro su di noi, ovvero sul soggetto che il lutto percepisce. Può l'arte, e la musica in particolare, aiutarci in questo? Direi senz'altro di sì, e il programma di questo concerto vorrebbe proprio essere un tentativo di elaborare in musica il nostro lutto perché Claudio non è più con noi.
All'inizio c'è il Lamento. Non si può chiamare il lamento una elaborazione: è uno sfogo che sorge immediato e spontaneo, quasi senza passare dalla nostra coscienza; ma nel momento stesso in cui questo lamento trova una forma, un melos e un metro, esce da un irriflesso stato di natura per aprirsi alla possibilità di una più ampia condivisione del dolore, fino a trasformare la contingenza che ha dato luogo al pianto nell'immagine di qualunque infelicità, di qualunque lutto, così che nei melismi del Dido's Lament di Henry Purcell noi avvertiamo l'incombere di un Fato che non è più solo quello della regina abbandonata, e nel ritmo di sarabanda che lo sostiene riconosciamo il passo che accompagna anche noi verso la stessa ultima meta.

Il lamento, pianto appena modulato in canto, è momento essenzialmente lirico; l'elaborazione vera e propria richiede piuttosto una logica narrativa, una costruzione più complessa, una sovrastruttura che ci consenta di allontanarci dal senso proprio di certe parole che ci straziano solo a pensarle per avventurarci in metafore, allegorie, simboli, che pur non nascondendo, o per lo meno non completamente, la loro origine, diano però modo di affermare e negare a un tempo, insomma di raccontarci e raccontare una storia che mentre appaga il desiderio di ricordare, sappia anche molcere il dolore del ricordo. In tutto ciò soccorrono gli artisti, che nelle loro creazioni sanno forgiare le materie più incandescenti dando ad esse una forma, una apparenza che ce le rende sopportabili, come uno specchio che ci consente di fissare una eclissi di sole senza bruciare gli occhi. Una delle metafore più ricorrenti per raccontare una assenza è da sempre quella del viaggio: partire è un po' morire, dice la saggezza popolare; e con pietose bugie ci siamo spesso illusi che, simmetricamente, morire sia un po' partire, un arrivederci e non un addio. Tra i più commoventi esempi di questa voluta ambiguità tra perdite momentanee e definitive è da annoverare senz'altro il di Johann Sebastian Bach; scritto per salutare il fratello Johann Jakob in partenza per la Svezia, raggiunge nell'Adagissimo del terzo movimento una espressione di così intenso dolore da farci pensare a come ogni saluto a una persona cara potrebbe sempre essere l'ultimo. Salvo poi, nei tre movimenti conclusivi, e soprattutto nella contagiosamente energetica “Fuga all'imitazione della cornetta del postiglione”, indicarci la possibilità di trovare in una ben temperata letizia la via per conseguire un ottimistico amor fati.

L'ideale sarebbe poter adempiere l'esortazione che Didone rivolge a Belinda2: “Ricordami, ma dimentica il mio destino!”, potendo dunque contare su una memoria selettiva, capace di mantenere intatto il pensiero dei giorni felici, lasciando svanire tra le ombre del mai accaduto ogni evento funesto. Purtroppo, si sa, non è possibile fare ciò a comando, con un semplice impulso della volontà. Ecco allora che l'Oblio può soccorrerci; ma se la Memoria fin dall'antichità si è saputa dotare di tecniche3 di ricercata raffinatezza, l'oblio è per sua natura un qualcosa di sfuggente e del tutto involontario; ci hanno provato in tanti, da Temistocle in poi, a 4 trovare un metodo efficace per dimenticare i ricordi sgraditi, ma a tutt'oggi non si sono visti grandi risultati, e anche il pro-memoria di Immanuel Kant riguardo alla categorica intenzione di dimenticare un famulo4 venutogli a noia è citato più come brillante aneddoto sulle eccentricità di una mente sublime che come esempio di una oblio-tecnica5 ancora tutta da inventare. Diciamo che se ricordare è un'arte, dimenticare probabilmente è un dono che ci possono arrecare solo gli Dei, come l'Amor Lethaeus dei Romani; o farmaci e pozioni, come quelli somministrati dai Lotofagi e da Circe nell'Odissea; o ancora la Provvidenza divina, che immerge Dante nel Lete per farlo ascendere al Paradiso purificato anche dalla sola memoria dei peccati terreni. Ma se vogliamo evitare di affidare la nostra preziosa lucidità sia a farmaci e pozioni, indulgendo al massimo a modiche quantità del dono di Bacco; sia a improbabili speranze ultramondane, è bene rassegnarsi all'evidenza che l'oblio del dolore arriverà, se mai arriverà, senza alcuna possibilità da parte nostra di favorirlo; al contrario, è più facile prevedere che ossessioni, idee fisse, pensieri e sogni ricorrenti spadroneggeranno nella malinconia del nostro animo. E la musica è sicuramente il linguaggio ideale per dar luogo a un pensiero dai frequenti ritorni su se stesso, in una concezione del tempo più ciclica che lineare; che si tratti di un Tema di Fuga o di Rondò, di un Leit-Motiv o di una serie dodecafonica, il principio comune è quello di sviluppare un oggetto sonoro nel modo più esauriente possibile, mantenendone al contempo la riconoscibilità; così avviene anche nella Sinfonia Fantastica di Hector Berlioz, il cui Tema ricorrente, dall’Autore stesso chiamato Idée fixe, conserva la propria languida ossessività anche nelle molteplici e ingegnose mutazioni cui è sottoposto. Liszt, già trascrittore dell'intera Fantastique, ne “L'Idée fixe” trasforma il Tema in un ampio Notturno dalle movenze ora sognanti, ora appassionate.

Tanto alla musica è consono esprimere eterni ritorni ed ossessioni, quanto le è estraneo l'oblio. E non solo per gli scaramantici auspici di ogni interprete impegnato nel far rivivere a memoria uno spartito; anche e soprattutto perchè lo stesso realizzarsi della musica nel tempo, il suo gioco di rimandi, allusioni, ripetizioni, elaborazioni, non è altro che una mnemotecnica particolarmente efficace per contemplare in un presente sincronico un materiale sonoro esposto diacronicamente6. A maggior ragione, ci colpiscono e ci emozionano brani come le di Liszt, musica che appare e scompare, indugia, si ferma, poi riprende, senza alcuna logica discorsiva, come gesti sonori compiuti in stato di ipnosi, ombre esangui di Valzer ammiccanti a un che di già inteso ma incapaci di trovare espressione compiuta, con l’effetto di un déjà vu che insieme c'intriga e ci lascia nell'inquietudine. O forse è vero il contrario, e anzi è la musica in sé, qualunque musica, ad esprimere l'oblio, o per lo meno a essere in grado di arrecarlo, come una droga oppiacea il cui principio attivo è una Bellezza che obbliga a non avere altro pensiero al di fuori della sua contemplazione. Questa possibile, cercata e temuta a un tempo, “narcosi estetica” è il senso del Lied Lorelei, in cui Heine, sotto l'immagine della “favola dei tempi antichi” della sirena Lorelei che induce col suo canto i marinai del Reno al naufragio, ci illustra, perfettamente assecondato dalle ambigue7 sonorità lisztiane, le tentazioni e i pericoli di una art pour l'art che divenga cura esclusiva nell'esistenza di estenuate, ipersensibili anime d'artista.



Sicuramente un dono, se ci libera dall'infelicità del passato; ma quando l’oblio induce a negare la realtà del presente il dono diviene insidioso, un sintomo nevrotico di quanto rimosso dalla coscienza. Nel Lied Allerseelen, felice connubio tra la poesia di Hermann von Gilm e la musica di Richard Strauss, le nostalgiche rimembranze di un giorno dei morti assumono i tratti di una allucinazione isterica, in cui la presenza della persona amata e scomparsa è evocata da ogni minimo dettaglio, il profumo delle resede, il colore degli aster, il premere complice di una mano sull'altra, e imposta alla nostra emotività dall'armonia straussiana, le cui successioni ora arcane, ora veementi conducono a una perorazione di tale slancio retorico da annichilire qualunque dubbio riguardo alla realtà di quanto rappresentato. Stesso discorso per il Lied Morgen, nel quale però Strauss, su versi questa volta di John Henry Mackay, propone come rimedio all'infelicità del presente non più un fideistico “qui ed ora”, bensì un domani immaginifico in cui una cullante, nirvanica melodia strumentale viene contrappuntata dalla estatica, spesso monotona (nel senso letterale di “su un'unica nota”) recitazione della voce cantante. Zueignung (il testo è di nuovo di von Gilm), che conclude il possente gruppetto di tre Lieder straussiani impaginati per questa occasione, ha carattere diverso, ma giustifica la sua robusta presenza con il titolo, una accorata “Dedica” da noi rivolta all'amico che ci manca e ci mancherà per sempre.

Ma concludere il nostro percorso musicale tra memoria e oblio con la pur focosa gravità di Richard Strauss poco sarebbe piaciuto a Claudio, spirito ironico e disincantato quant’altri mai. Preferiamo dunque suggellare il concerto con il mirabile equilibrio della musica di Mozart. Si è già accennato alla capacità della Forma di sublimare, risolvendoli in bellezza, quei moti dell'animo la cui intensità ci sarebbe insopportabile. E gli esempi migliori di ciò li troviamo senz’altro in quella vera età dell'oro che fu il classicismo musicale, perfetta fusione tra immediata comprensibilità del linguaggio, dovizia di contenuti intellettuali ed emotivi e, aspetto non meno importante, costante attenzione alle ragioni di un sano edonismo. In più, Mozart è sempre e comunque una medicina per il nostro animo, come appurato da seri e approfonditi studi di musicoterapia (“effetto Mozart” ha chiamato l'efficacia della musica del salisburghese per la cura delle patologie nervose, e più in generale per potenziare le facoltà creative della mente nell'infanzia, il medico-musicofilo Alfred Tomatis8), e l'Aria da concerto con pianoforte obbligato , di sfolgorante, olimpica bellezza, è una rappresentazione illuministicamente serena e didascalica delle emozioni multiformi e ambivalenti che il distacco da una persona cara suscita in noi. L'Aria fu scritta per la cantante Anna Selina “Nancy” Storace, le cui virtù non solo musicali pare suscitassero in Mozart i più appassionati slanci. La prima esecuzione, con la dedicataria protagonista e Wolfy al pianoforte, ebbe luogo a Vienna il 23 febbraio 1787, dopo di che Nancy partì per Londra e Amadeus, che sarebbe morto quattro anni più tardi, non la rivide mai più. Mai più...ma sarà vero? Forse, chissà dove, chissà quando, ci si rivedrà, o vagando tra gli asfodeli, o scorazzando per i campi elisi (ma non lacrimando nel Tartaro, s'intende). Forse basta smettere di sillogizzare, e immaginare invece che da luoghi indefiniti e senza tempo, con un’allegria che fin che siamo qui non riusciremo mai a concepire, un coro di voci finalmente libere da preoccupazioni ci stia rivolgendo le spensierate note dei Beatles: “I don't know why/you say goodbye, I say hello!”9

Luca Schieppati



1 “The rest is silence”, W. Shakespeare, Hamlet, V,2. Sono le ultime parole pronunciate da Amleto.

2 Così il librettista Nahum Tate anglicizzò la virgiliana Anna.

3 Sulla storia della mnemotecnica vedi, in particolare: F. Yates: L'Arte della Memoria (Einaudi, 1966)

4 “Il nome di Lampe va assolutamente dimenticato”, appunto scritto da Kant per se stesso negli ultimi anni della sua vita in seguito a un litigio con il domestico Lampe; su questo episodio, così come sul Temistocle plutarchiano citato poco prima, vedi di Weinrich: “Lete, arte e critica dell'Oblio” (Il Mulino,1999)

5 Cfr. al riguardo U. Eco, il capitolo “La vertigine del labirinto e l'Ars Oblivionalis” in “Dall'albero al labirinto” (Bompiani, 2007); un saggio di Eco sulla letotecnica era già apparso nel 1987 sulla rivista KOS), dove si nega, con solidissimi argomenti logici, la possibilità di una vera “Ars oblivionalis”; e vedi anche la confutazione, dotta ed elegante ma forse meno convincente, di H. Weinrich nel già citato “Lete , arte e critica dell'oblio”

6 “La musica è una macchina per sopprimere il tempo”, secondo la bellissima definizione di C. Lévi-Strauss ne “Il crudo e il cotto” (Il Saggiatore, 1966)

7 Vien da dire tristaneggianti; ma il Tristan è del 1859, Lorelei del 1856, così che casomai è Wagner a esser loreleizzante…

8 Cfr. A. Tomatis, Perchè Mozart? Ibis, 1991

9 “Non capisco perchè tu dici addio; io dico ciao!” Lennon/McCartney, Hello, goodbye! 1967


giovedì 6 gennaio 2011

Tolstoj, l'inattuale contemporaneo

Fra i tanti esercizi di retorica che affliggono le commemorazioni forse il più frequente, e il meno plausibile, consiste nel lodare del commemorato gli aspetti che lo renderebbero “attuale”. Certo così facendo si fornisce una accattivante patina di “novità” anche a ciò che altrimenti attirerebbe solo pochi, dotti cultori delle vestigia del passato; ma ci sarebbe da chiedersi se questa “attualità” sia poi effettivamente un titolo di merito. Attuale è ciò che appartiene al proprio tempo, e in esso si esaurisce, così che essere “attuali” equivale un po' ad essere “alla moda”, ovvero di scarso interesse per chi dagli effimeri domini del quotidiano si voglia inoltrare in quelli più duraturi dell'arte. Piuttosto che dell'attuale, meglio allora cercare le tracce del contemporaneo, e precisamente di quel contemporaneo che è al tempo stesso inattuale di cui scrive Giorgio Agamben:
Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo caso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire ed afferrare il suo tempo. (.......) La contemporaneità è , cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce ad esso e,insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce ad esso attraverso una sfasatura ed un anacronismo. Coloro che coincidono troppo pienamente con l'epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla,(.....) contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono,per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri.
Contemporaneo è colui che sa vedere quella oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente.
(Giorgio Agamben, Che cos'è il contemporaneo? In Nudità, ed. Nottetempo)
Con tutta evidenza, la vitalità del pensiero e la forza della prosa di Lev Nikolaevic Tolstoj, che l'odierno concerto celebra a un secolo esatto da quel fatale 7 novembre 1910 in cui nel freddo della stazione di Astapovo rese il suo ultimo respiro, possiedono proprio questa inattuale contemporaneità, in virtù della quale risplendono oggi del medesimo, tetragono vigore che contraddistinse le membra del loro artefice. E mi riferisco non solo e non tanto ai romanzi e ai racconti tra i più universalmente amati; certo le riflessioni del Principe Andrej, le crisi esistenziali di Pierre Besuchov, il suicidio della Karenina o la prese di coscienza di Ivan Il'ic turbano e turberanno sempre le anime sensibili, ma contro questo turbamento, contro la scandalo di un'emozione così intensa da cambiarci la vita, scatta quella sorta di immunizzazione dagli effetti del Vero attraverso il Bello che la museificazione del nostro rapporto con le opere d'arte ha ormai portato a compimento; in buona sostanza, siamo sì turbati, ma chiudiamo il libro, e non ci pensiamo più (se non per compiacerci di come quel bel parallelepipedo colorato all'esterno e pieno di parole all'interno faccia bella mostra di sé nella nostra libreria). Parlo invece del Tolstoj divulgatore di saggi, articoli e pamphlet scritti intenzionalmente al di fuori di qualunque “aura” estetica, dal contenuto così radicale e privo di mediazioni da mettere in crisi il pigro adagiarsi delle nostre opinioni sulle confortevoli morbidezze del luogo comune: potrebbe forse “passare di moda” chi non è mai stato, né mai sarà, “alla moda”? Chi con ogni sua parola ci sprona a non accettare il benchè minimo compromesso né con le piccole, quotidiane viltà che scandiscono, miseri noi, il nostro difficile procedere attraverso quella cosa ardua e amara che è la nostra vita, né con le richieste, ora subdole e insinuanti, ora violente e arroganti, del Potere, di ogni potere, quello che si ostende in autocelebrazioni di gloria, così come quello che si cela nella maschera mite di una socialità fondata sull'ipocrisia? No, naturalmente: il pensiero tolstojano mantiene inalterata la propria forza in qualunque epoca lo si trasponga, poiché attinge la sua ragion d'essere direttamente alle radici di ciò che è essenzialmente, eternamente umano.
Contemporaneo, inattuale; e, come si usa dire, scomodo; anzi scomodissimo, insistente e fastidioso come un tafano di socratica memoria: leggendo questi saggi su politica, società, morale, estetica (della cui ricchezza di argomenti la sintesi offerta nel nostro spettacolo, giocoforza limitata dalla necessità di lasciare spazio soprattutto alla musica, cerca di dare almeno un'idea) più di una volta ci sentiamo direttamente chiamati in causa; che sia il pacifismo, o il vegetarianesimo, o le ingiustizie nella distribuzione delle risorse, a ogni parola Tolstoj riesce a farci capire che ovunque c'è il Male, c'è anche qualcuno che lo compie, e che quel qualcuno il più delle volte non agisce da solo, ma può giovarsi dell'aiuto, o quanto meno della complice passività, di tanti, di troppi altri, noi compresi.
E scomodo, anzi scomodissimo, anche per un musicista. Certo Tolstoj amava la musica, questo è fuor di dubbio; tante sono le pagine di diario in cui ci racconta di ore trascorse serenamente al pianoforte insieme alla moglie, o di riunioni conviviali allietate fino all'entusiasmo dalla presenza di musicisti. Ma sulla musica scrisse anche parole terribili, invettive veementi, censure senza appello. Tale ambivalenza non deve stupirci: amare la musica vuol dire anche capirne, conoscerne i potenti effetti sull'animo umano, e forse temerla è il miglior riconoscimento che si possa renderle; del resto già Platone, già Sant'Agostino, pur non insensibili alle dolcezze dell'arte dei suoni, espressero un sacro timore per come essa sappia influenzare la nostra volontà, inducendo in noi sentimenti e perfino azioni che, se muniti come Ulisse di cera per le nostre orecchie, non avremmo provato o compiuto. Da musicista, inutile dirlo, preferirei che la musica fosse universalmente amata, anziché odiata, temuta, inibita; ciononostante mi sento di affermare che è meglio un odio motivato, piuttosto che l'insensibilità e l'incomprensione. Ben vengano i musicofobi ipersensibili come Tolstoj: nemico ben peggiore è chi si accosta alla musica con ignava e ignara indifferenza, chi vorrebbe relegarla a inutile orpello, volta a volta oppio per le masse o trastullo dei potenti, purché mai parte integrante e di primaria importanza nella formazione di individualità armoniosamente sviluppate. Ma chiudo qui l'argomento, perchè inizierei a parlare di quale appare essere il ruolo della musica, e dell'arte in genere, oggi in Italia, e ho come l'impressione che ne direi di talmente grosse da mettermi nei guai.

Qualche annotazione sulle musiche scelte per questo spettacolo, poiché se ben noto è il trait-d'union fra Tolstoj e la beethoveniana Sonata a Kreutzer, cui comunque accenneremo più avanti, forse non altrettanto conosciuto è il nesso tra il romanziere e gli altri Autori in programma.
Tchaikovsky incontrò Tolstoj più volte. In una pagina di diario del 1886 così rievoca una serata in cui, presente lo scrittore, venne eseguito il suo Primo Quartetto per archi:
Mai, in vita mia, la mia ambizione fu così soddisfatta, mai la mia coscienza di autore così appagata come quella volta quando Tolstoj, seduto accanto a me, ascoltava le note del mio «andante», mentre lacrime di commozione gli rigavano le guance.
Comprensibile soddisfazione, soprattutto viste le parole che Tolstoj dopo il concerto gli aveva scritto:
Non le ho detto nulla di quel che provavo, non ne ebbi nemmeno il tempo; potevo soltanto godere. Il mio ultimo soggiorno a Mosca rimarrà fra i miei ricordi più belli. Prima di allora, non mi era mai toccato ricevere [...] un compenso così bello come quella meravigliosa serata.
In un'altra pagina di diario, Piotr Ilich prende però le distanze dalle idee del pur venerato Lev Nikolaevic:
...Perché quest'uomo che possiede il dono prezioso di accordare l'anima dell'uomo in una maniera meravigliosamente armonica, che ha la forza di indurre le nostre deboli menti ad afferrare i più riposti moti del cuore, perché si sente in dovere di fare il predicatore, il moralista? Una volta, col semplice racconto di un episodio della vita di tutti i giorni, sapeva suscitare le impressioni più profonde. Adesso commenta testi e pretende un monopolio esclusivo nelle cose di fede e di etica. Il Tolstoi di un tempo, il narratore, era un Dio; l'attuale non è che un sacerdote.
Sergej Ivanovic Taneev, oltre che elegante compositore e ottimo pianista, fu anche il suscitatore, non si sa fino a che punto inconsapevole, di tremende scenate di gelosia che misero a durissima prova la serenità coniugale dei Tolstoj fornendo al contempo ispirazione al romanzo “La Sonata a Kreutzer”, nel quale Taneev diviene il fatuo e lubrico musicista Truchachesky, impegnato in rendez-vous musicali con la moglie del protagonista Podnyscev, alter-ego tolstojano. La musica di Beethoven, quel “qualcosa di terribile” in essa contenuto, è qui immagine archetipica della furia distruttrice cui possono giungere le passioni umane.
Anche Rachmaninov incontrò Tolstoj, ma con meno successo di Tchaikovsky; il giovane, talentuoso compositore attraversava una fase di profonda depressione, così che alcuni amici comuni gli procurarono un incontro con Tolstoj, nella speranza evidentemente che la prodigiosa energia vitale del grande vegliardo potesse risvegliare in lui nuove speranze per il proprio avvenire. Ma l'esito fu del tutto opposto: durante l'incontro Sergei Ivanovic suonò a Lev Nikolaevic alcuni dei suoi pezzi per pianoforte. Dopo aver ascoltato in atteggiamento sempre più corrucciato, Tolstoj esclamò: "Dimmi, le persone hanno bisogno di musica come questa?".
Carlo Galante ha composto “Per Sofja Tolstaja – Piccola Sonata in forma di Diario” appositamente per questo concerto; l'idea gli è nata leggendo i Diari della moglie di Tolstoj, recentemente tradotti e pubblicati in italiano, e dei quali anche ascolteremo la lettura di alcuni stralci. Vita dura, quella di moglie di un Genio: come criticare l'uomo che tutti adorano, l'esempio di rettitudine, l'autore di opere immortali? E d'altro canto, come sopportarne le inevitabili, egocentriche necessità quotidiane, le violente idiosincrasie, gli sbalzi di umore, senza rinunciare a un legittimo orgoglio, a una imprescindibile dignità? Le contraddizioni dell'animo di Sof'ja, volta a volta moglie innamorata e vittima di un marito dal carattere talmente forte da poter risultare opprimente, sono ben espresse dagli aspri contrasti timbrici, dinamici, ritmici di questo brano, che peraltro racchiude in sé, quale cellula generatrice, un frammento di assoluto lirismo, un Tema di Valzer di fresca, ingenua innocenza, scritto (o meglio: suonato, e poi trascritto dall'amico pianista Goldenweiser) dallo stesso Tolstoj. Luca Schieppati

Napoleone, la Musica, Cherubini e l'arte di dire “No”

Che musica piaceva a Napoleone? Soprattutto l'Opera italiana, chissà se per retaggio delle origini toscane dei Buonaparte, o più semplicemente perché la facile cantabilità delle scuole musicali della penisola seduceva (e seduce) l'orecchio più della macchinosità della tragédie lyrique e della astratta perfezione del sinfonismo tedesco. E il preferito in assoluto era Paisiello: la dolce malinconia delle sue cantilene, di cui l'Aria “Nel cor più non mi sento” tratta da “La Molinara” (1788) è un perfetto esempio, fu particolarmente gradita all'orecchio e al cuore del Bonaparte, che nel 1802 volle il tarantino come musicista di corte alle Tuileries. L'ormai anziano Maestro fece però in modo, giustificandosi con motivi di salute, di sottrarsi agli onori e agli oneri connessi alla carica, ottenendo di poter tornare nel regno di Napoli già nel 1804.
Altro musicista prediletto fu Gaspare Spontini; tanto Paisiello fu schivo verso gli allori elargitigli dal potente protettore, così Spontini ne fu abile catalizzatore, in virtù sia di una indubbia capacità di contemperare nelle sue musiche le esigenze celebrative con una elevatissima qualità estetica; sia di un carattere quant'altri mai adatto a cogliere i vantaggi della vita di corte. “La Vestale”, di cui è in programma la commovente Aria di Giulia “Ah, des infortunes”, è senz'altro il titolo che più consolidò la sua fama, nonché paradigmatica declinazione musicale di quel neoclassicismo che per un quindicennio fu la cifra distintiva delle arti di tutta Europa.
Come Spontini seppe essere cantore dei fasti dell'Impero, altrettanto Cherubini lo fu delle turbolenze del Direttorio e del Consolato, con i suoi drammi vibranti di romanzesche vicissitudini e accesi contrasti, dalle pièce à sauvetage “Lodoiska” e “Les deux journées” alla cupa tragedia “Medée”. Da quest'ultima ascolteremo oggi “Solo un pianto”, l'Aria dell'ancella Neris, e già dall'intensità di questo brano affidato a un personaggio secondario possiamo renderci conto della spasmodica tensione emotiva che attraversa tutta l'Opera. Cherubini si dedicò anche alla musica strumentale; oltre a una Sinfonia e ai tardi Quartetti per archi, compose anche, ventenne, sei Sonate per cembalo o fortepiano; certo ciò che il maestro fiorentino immaginava alla tastiera non è paragonabile né alle delizie mozartiane, né agli spavaldi virtuosismi di Muzio Clementi. Egualmente, la purezza di certi inattesi squarci di lirismo, la sicura consecutio dei fraseggi, l'originalità di alcuni percorsi armonici, tutto ciò ci rivela anche in queste pagine oneste e semplicette la mano sicura dell'Artista di prima grandezza. Di Luigi Cherubini ci piace qui ricordare, assieme alle virtù musicali, anche quelle del carattere: fu uno dei pochi infatti a saper dire di “no” a Napoleone quando questi, in un incontro avvenuto a Vienna nel 1805, gli chiese di tornare a Parigi al suo seguito; l'orgoglioso maestro preferì rifiutare, memore di alcuni appunti mossi dal sovrano alla sua musica. L'atteggiamento del Bonaparte verso Cherubini fu del resto sempre ambivalente: da un lato ne ammirava la maestria, dall'altro non ne tollerava la ruvida ritrosia del carattere e la severa compostezza dello stile musicale. Quasi a compensare questa disistima, a Vienna Cherubini fu onorato dalla benevolenza, ben più lusinghiera per un musicista, di Ludwig van Beethoven. Nei confronti di Napoleone, Beethoven passò, come è noto, dall'entusiasmo per chi sembrava essere il Liberatore dei popoli dalla tirannia, al disprezzo per l'ambizioso che con l'Impero tradiva i principi della Rivoluzione. Esemplare di questo percorso è la vicenda della dedica dell'Eroica al Bonaparte, prima vergata sul frontespizio della Sinfonia e poi furiosamente cancellata il giorno dell'auto-incoronazione in Notre-Dame; le Variazioni op.35 elaborano lo stesso Tema che fungerà da Finale nella Sinfonia Eroica, e che in precedenza era stato un numero del balletto “Le creature di Prometeo”.
Il Prometeo beethoveniano è un demiurgo capace di infondere energie che di volta in volta esaltano fino all'ebbrezza o spaventano fino al terrore, e sicuramente tra il mito illuminista del Titano capace di liberare l'umanità dalle catene dell'ignoranza e della superstizione, e quello napoleonico dello “spirito della Storia” che spazza via ogni ordine costituito, l'affinità doveva risaltare in modo immediato e convincente. E il mito napoleonico, in una versione in verità più mercuriale che prometeica, parve trovar realizzazione anche in ambito musicale quando comparve, rapido e fulgido, l'astro di Gioacchino Rossini. Celebre è la definizione stendahliana, poi ripresa da Giuseppe Mazzini, di “Napoleone della musica”, a sottolineare la facilità con cui il pesarese conquistava i teatri d'Europa, nonché la brillante sprezzatura con cui la sua orchestra rivoluzionava le pigre abitudini dell'opera italiana. L'irresistibile ascesa di Rossini inizia con i debutti veneziani del 1812/13, ovvero gli stessi anni dell'inesorabile declino di Napoleone in seguito alla disastrosa campagna di Russia (circa un milione di morti tra soldati della Grande Armée e militari e civili russi, inutile strage che bisognerebbe sempre ricordare per non indulgere a tentazioni acriticamente celebrative). L'Italia in quegli anni ha ormai compreso che nessun “liberatore” straniero potrà giovare alla causa della sua indipendenza, e che solo il sorgere di nuovi ideali e di energiche iniziative per realizzarli potrà compiere l'ormai da molti auspicata impresa di risorgere a Stato unitario. E' in questi anni, parallelamente allo sviluppo di questa nuova consapevolezza, che il melodramma diviene luogo privilegiato per la condivisione di un comune sentire patriottico: quando le Isabelle o i Tancredi declamano“O Patria!...”, un nuovo pubblico di Italiani coglie in queste parole se non una chiamata alle armi, quanto meno un esplicito invito a tenersi pronti per un futuro prossimo di riscatto e di libertà; così da poter senz'altro ritenere che, nella Venezia del 1813, l'Aria di Tancredi “Di tanti palpiti” meritò il suo enorme successo non solo per la perfezione delle sue simmetrie, bensì anche perché il “Napoleone della musica” aveva saputo conquistare i cuori del suo pubblico a discapito del Napoleone invasore straniero.
Il mito napoleonico si nutrì anche della magnificazione delle qualità sovrumane, superomistiche del condottiero, così che possiamo ben dire che molti eroi del romanticismo sono debitori alla figura, reale o idealizzata, del Bonaparte. Ed eroe romantico per eccellenza in campo musicale fu senz'altro Niccolò Paganini: l'aneddotica si spreca su questo straordinario virtuoso, capace di strappare al violino ciò che nessuno aveva mai pensato si potesse osare, e che tutt'oggi pochi riescono a realizzare. La Sonata “Napoleone” pare sia frutto di una giocosa sfida che Paganini ricevette da Elisa Bonaparte, mentre era musicista di corte nel principato di Lucca; la sorella dell'Imperatore, ingelosita dalla dedica a una nobildonna di una Sonata scritta da Paganini per sole due corde del violino, ritenne di dover rimarcare il suo maggior rango rispetto alla rivale esigendo dal virtuoso un'altra Sonata, da eseguirsi su un'unica corda. Impossibile? No, nulla sul violino era impossibile per il Genovese, ed ecco a dimostrarlo la Sonata oggi in programma, per eseguire la quale la fulminea prestidigitazione del nostro ottimo Piercarlo Sacco dovrà, napoleonicamente, tener dietro al baleno.

10° Rassegna "I Concerti di Spazio Teatro 89"

10a Rassegna Musicale
“In Cooperativa per Amare la Musica - I Concerti di Spazio Teatro89”
17 Ottobre 2010 - 22 Maggio 2011

Nonostante la crisi. Anzi, vien da dire: “proprio perché c'è la crisi”, visto che soprattutto in simili frangenti capiamo quanto, a fronte di quelle dell'homo oeconomicus, le risorse dell'homo sapiens siano più universali, durature e gratificanti. Dunque, “come scoglio immoto resta/contra i venti e la tempesta” (e, naturalmente, della citazione mozartiana vogliamo anche cogliere tutta l'ironia), così Spazio Teatro 89 presenta anche quest'anno una nuova stagione di concerti, la decima. Vediamone qualche dettaglio.
- Gli interpreti: presenteremo nuovi talenti, come il polacco Szczepan Konczal, vincitore del nostro concorso pianistico; continueremo a seguire artisti da noi lanciati qualche anno fa e che ora sono ai vertici del concertismo mondiale, come Sofya Gulyak; e avremo l'onore di ospitare Maestri che hanno fatto la Storia dell'interpretazione pianistica, Paolo Bordoni e Daniel Rivera.
- I programmi: repertori desueti (la musica da camera di Liszt e Chopin, i Quintetti di Martucci e Respighi); autori poco noti o comunque ingiustamente trascurati (Taneev, Malipiero, Casella, Pick-Mangiagalli); spettacoli originali che uniscono musica, teatro e letteratura (l’omaggio a Tolstoj con Quirino Principe e una “prima” assoluta di Carlo Galante; una Serva Padrona tra filologia musicale e follia scenica).
- I temi: principali fili conduttori saranno le due ricorrenze del 2011, intrecciate l’una all’altra nella nostra programmazione: il bicentenario lisztiano, occasione per il percorso “Lisztalia”, ovvero una ampia scelta dei numerosi brani di Franz Liszt ispirati dal nostro Paese; e il 150° dell'Unità d'Italia, che celebreremo con il festival “Hexameron – le 6 Giornate di Spazio Teatro 89”, sei appuntamenti sulla musica italiana dal ‘700 al ‘900 osservata nel suo evolversi parallelamente alle vicende storiche, con la partecipazione, insieme a tanti musicisti, del professor Lucio Villari, per una autorevole prolusione al concerto verdiano del 20 marzo.
E dopo il successo di Notturno Photo-Chop, chiederemo anche quest'anno i vostri “scatti” per il nuovo concorso fotografico “Lisztantanea”, che sarà dedicato all'Autore del Sogno d'Amore e avrà come tema, appunto, i sogni.
Tante proposte, tanti diversi motivi d’interesse che speriamo sapranno soddisfare le attese di un pubblico che di anno in anno vediamo sempre più numeroso, attento, esigente e appassionato. E sarà soprattutto la condivisione di questa passione, di questo amore per la musica ciò che ancora una volta ci renderà felici: fuori imperversino gli squali della finanza globalizzata, demiurghi e demagoghi, or queruli ed or minacciosi, dissennatamente dilapidino ogni nostro avere, ma state pur certi che la musica risuonerà ancora a Spazio Teatro 89, perché la nostra sala è e sarà sempre come la volle Claudio Acerbi: una luce sempre accesa nella periferia di Milano.




Biglietti:
intero € 5,00
ridotto (under 18, over 65) € 3,00

Abbonamenti:
intero: € 48,00
ridotto (under 18, over 65) € 16,00
Per informazioni e abbonamenti:
Spazio Teatro 89
via fratelli Zoia 89, 20153 Milano
(autobus 49,64,78)
0240914901 – 3358359131
info@spazioteatro89.org
concertispazioteatro89@gmail.com


CALENDARIO DEI CONCERTI
Domenica 17 ottobre 2010 – ore 17.00 Concerto inaugurale Schumann: Sonata op.11; Kinderszenen op.15; Faschingsschwank aus Wien op.26
Paolo Bordoni, pf.

Domenica 7 novembre 2010 – ore 17.00 “Qualcosa di terribile” Tolstoj, la musica, e altre invettive Musiche di Beethoven, Tolstoj, Taneev, Tchaikovsky, Rachmaninov, C. Galante (prima esecuzione assoluta)
Piercarlo Sacco, vl.; Luca Schieppati, pf. Con la partecipazione di Quirino Principe

Domenica 21 novembre 2010 – ore 17.00 Un piano per vincere Mozart: Sonata K330; Beethoven: Variazioni op.34; Chopin: Improvvisi, Mazurke, Polacca Brillante op.22 Szczepan Konczal, pf. (1° Premio Concorso 2010)

Domenica 12 dicembre 2010 – ore 17.00 Rarità cameristiche (1)
F. Chopin: Trio op.8; F. Liszt: “Tristia” (Vallée d’Oberman); Carnevale di Pest, versioni per Trio dell’Autore
Luca Schieppati, pf.; Piercarlo Sacco, vl.; Andrea Scacchi, vcl.


Domenica 16 gennaio 2011 – ore 17.00
Senza Orchestra
Bach/Busoni: Ciaccona; Schumann, Sonata op.14 “Concert sans Orchestre”; Ravel: La Valse
LIszTALIA Saint-Saens/Liszt: Danse macabre;
Minjeong Jeong, pf. (2° premio Concorso 2010)


Venerdì 28 gennaio 2011 – ore 20.30
Ch’io mi scordi di te? Musica tra Memoria e Oblio
Purcell: Dido’s lament; Mozart: “Ch’io mi scordi di te” K 505;
LIszTALIA Liszt: L'Idée fixe, 4 Valses oubliées, Lorelei; R. Strauss: Allerseelen, Morgen, Zueignung Külli Tomingas, mezzosoprano; Luca Schieppati, pf.

Domenica 13 febbraio 2011 – ore 17.00 Attaccàti al Traum Sogni, d’amore e d’altro, in musica Beethoven: Andante favori; LiszTALIA Liszt: 3 Liebesträume; Liszt: 3 Sonetti del Petrarca; Ballata n.2; Schubert/Liszt: Ständchen; Schumann/Liszt: Widmung; Wagner/Liszt: Elsa’s Traum; Debussy: L’isle joyeuse
Natalia Katyukova, pf.

“Hexameron: le 6 Giornate di Spazio Teatro 89”
6 appuntamenti tra Musica e Storia per il 150° dell’Unità d’Italia
Hexameron I – Domenica 27 febbraio 2011 – ore 17.00
Prima dell'Italia, gli italiani (e l'italiano) L’Italia nel ‘700: “Serva” in politica, “Padrona” in musica Pergolesi: La serva padrona, Intermezzo in due atti LiszTALIA Liszt: Angelus!, per Quartetto d’Archi Con Aurora Tirotta, Alessandro Tirotta e Stefano Locati dei Freacklown; Ensemble strumentale diretto da Andrea Raffanini

Hexameron II - Domenica 6 marzo 2011 – ore 17.00
“Fuoco nel marmo”
virtuosi e neoclassici nell’Europa in fiamme
D. Scarlatti: 4 Sonate; Clementi: Sonata in sol minore;
LIszTALIA: Paganini/Liszt: 6 Capricci Liszt: Improvviso Brillante su Temi di Rossini e Spontini
Regina Chernychko, pf.

Hexameron III - Domenica 13 marzo 2011 – ore 17.00
Romantici (ma con juicio)
Musica tra Restaurazione e Rivoluzione
LIszTALIA: Liszt, Chopin, Czerny, Pixis, Herz,Thalberg: Hexameron, 6 Variazioni sulla Marcia dei Puritani di Bellini; Donizetti/Liszt: Sestetto da Lucia di Lammermoor
Liszt: Funerailles; 4 Studi Trascendentali
Daniel Rivera, pf

Hexameron IV – Domenica 20 marzo 2011 – ore 16.30
L'Italia s'è desta
Fu vera gloria, o forza del destino?
Precederà il concerto un intervento del prof. Lucio Villari
LIszTALIA Verdi/Liszt: Fantasie, Parafrasi e Reminiscenze da Opere verdiane; G. Verdi: Arie, Duetti, Romanze
Francesca Ruospo, sop.; Külli Tomingas, ms.; Stefano La Colla, ten..; Guido Loconsolo, bar.; Luca Schieppati, pf.

Hexameron V - Domenica 27 marzo 2011 – ore 17.00
Fatta l'Italia, facciamo gli europei!
Martucci e la rinascita della musica strumentale
Martucci: Quintetto; Respighi: Quintetto;
LIszTALIA Liszt: Am Grabe Richard Wagners
Quintetto Opus5: Gisella Curtolo e Paolo Zordanazzo, vl.; Andrea Repetto, v.la; Lucio Labella Danzi, vcl.; Davide Cabassi pf.

Hexameron VI - Domenica 3 aprile 2011 – ore 17.00
Epigoni o Autarchici? Apocalittici o Integrati?
Dalla “Generazione dell'80” al secondo dopoguerra
Malipiero:Preludi autunnali;Respighi:Preludi sopra melodie gregoriane;Pick-Mangiagalli:2 Lunaires;Casella: A' la manière de..;Dallapiccola: Quaderno musicale di Annalibera;Rota: Preludi;LIszTALIA Liszt:Leggenda“S. Francesco di Paola cammina sulle acque”
Pianista: Giuseppe Merli

Domenica 17 aprile 2011 – ore 17.00 Rarità cameristiche (2) LiszTALIA Liszt: Elegie; Romance oubliée; La lugubre gondola; Die Zelle in Nonnenwerth; O du mein holder Abendstern; Respighi: Andante e Variazioni;Di Gesu: Sonata in F.; Casella:Sonata Duo Andrea Favalessa e Maria Semeraro, vcl. e pf.

Domenica 8 maggio 2011 – ore 17.00 Dal Viandante metafisico… Schubert: Fantasia op.15 (Wanderer) LiszTALIA Liszt, Sonata; Schubert/Liszt: Lieder Sofya Gulyak, pf.

Domenica 22 maggio 2011 – ore 17.00 …al Pellegrino Appassionato LiszTALIA Liszt: dagli Anni di Pellegrinaggio: Les Cloches de Geneve; Vallèe d'Obermann; Au lac de Wallenstadt; Au bord d'une source; Sursum Corda; Marcia Funebre; Dante sonata; Venezia e Napoli Tatiana Larionova, pf.