domenica 22 luglio 2012
domenica 8 aprile 2012
Strangers in the notes - Elogio delle dissonanze (e persino delle stonature)
La bellissima rivista Arabica Fenice mi ha chiesto un testo per il numero dedicato al tema dell'alieno, nel senso di tutto ciò che è straniero, estraneo, al di fuori della norma. Lusingato dall'invito, ho cercato di svolgere questo inesauribile tema da un punto di vista musicale.
Ho sempre pensato con un certo disagio a quelle che la teoria musicale chiama “note estranee”, ovvero quei suoni non appartenenti all'accordo di volta in volta considerato più importante. Estranee, come se tra un do e un fa diesis ci fosse bisogno di presentazioni, come se per la acribia tassonomica dello sguardo umano fosse impossibile, persino sulla asettica superficie di uno spartito, non rilevare gerarchie e discriminazioni tra lecito ed illecito, familiare ed alieno. E il disagio scivola nell'inquietudine non appena mi rendo conto che sono proprio le note estranee ad attirarmi e a piacermi di più. Del resto se in preda a furore diatonico, in un raptus che potremmo definire di fono-xenofobia, emendassimo la musica da queste note, il risultato sarebbe di una tale noia che le sale da concerto perderebbero anche quei pochi irriducibili musicofili che ancora le frequentano, poiché anche il repertorio più consonante, più radicato nel sistema armonico tonale, trova la propria linfa vitale in quegli elementi di contrasto che sono le dissonanze, e in genere in tutte le asimmetrie e le disarmonie volute dall'autore per far sì che la armoniosa sintesi dell'intero brano non si imponga con monolitica, austera immanenza, bensì attraverso la feconda dialettica tra tensioni e distensioni, tra attese e appagamenti. E anche, ed è questo l'aspetto che più mi intriga, mediante la percezione di un potenziale pericolo, di un rischio da correre, ovvero che la felicità di cui la musica è promessa sia una meta da conquistare ogni volta, e che dunque ogni volta potrebbe anche non essere raggiunta, ogni volta potremmo anche perderci nella selva oscura di modulazioni che non concludono e melodie che non prendono il volo. E la bravura di un compositore, la sua maestria nel gestire questa dialettica, consiste anche nel farci vivere questo travaglio del bello che si crea qui ed ora per il nostro ascolto, nel tenerci fino all'ultimo in una ben calibrata suspense, fino al felice scioglimento dell'intreccio sonoro; e solo se intraprendiamo il periglioso viaggio senza temere sonorità anche selvagge e aspre e forti, solo con questa fiduciosa disponibilità a sorprenderci potremo godere di quei preziosi momenti che la musica ci sa donare: come quando inopinatamente riappare il tema delle Variazioni Goldberg dopo le sue trenta mutazioni, e sembra così diverso dalla prima volta, perché nel corso di questa Odissea musicale Bach squaderna mondi inimmaginati che, oltre a suscitare il nostro meravigliato stupore, risvegliano a ogni passo anche il desiderio di poter ritornare alla Itaca soave e incantata della Sarabanda iniziale. O come quel passo dell'Eroica di Beethoven, nella ripresa del primo movimento, quando l'armonia “sbagliata” che sovrappone Tonica e Dominante è segno e significato insieme di una possibile coincidenza degli opposti, di una esperita concordia tra la vita attiva dell'Eroe e quella contemplativa dell'Artista. Sentendo questo passo durante una prova, l'allievo di Beethoven Ferdinand Ries credette che il cornista avesse anticipato l'entrata, e non poté trattenersi dall'esclamare: “Suona in modo terribile!”, suscitando a un tempo le ire del Maestro e l'ironia dei posteri. Ironia, ritengo, immeritata dall'onesto Ries, che in fondo non aveva tutti i torti: se ci pensiamo bene, in un'arte performativa come la musica, che si realizza appieno solo nella effimera attualità delle interpretazioni, cosa distingue, alle orecchie di un pubblico che non conosce le partiture di cui ascolta le esecuzioni, una dissonanza voluta dal compositore da una stecca dell'interprete? Proprio giocando su questa insolubile ambiguità Mozart scrisse uno dei suoi più incredibili capolavori, il Musikalischer Spass K 522, dove sono previsti strafalcioni di ogni genere, da imputare a seconda dei casi alla asineria di sedicenti compositori o alla imperizia di improbabili virtuosi (memorabile la Cadenza del violino nel terzo movimento). E a parte l'ammirazione per l'esempio mozartiano, il cui geniale straniamento stilistico fa comunque storia a sé, confesso che anche le banali note false, proprio quelle senza alcuna ragione se non l'attimo di distrazione di uno strumentista, o la invalicabile difficoltà tecnica di un determinato passaggio, o l'infausto influsso della signora in terza fila con quel bel vestito viola (sì, c'è ancora chi indulge a simili delicatezze quando si reca a teatro), ebbene, anche queste impreviste e imprevedibili défaillances in realtà mi piacciono, imperfetto mortale qual sono, più di una sterile correttezza da automi, forse perché non riesco a non pensare che quando un musicista sbaglia una nota sta anche rivelando, e forse consapevolmente rivendicando, di essere umano, troppo umano per ambire alla perfezione.
Ho sempre pensato con un certo disagio a quelle che la teoria musicale chiama “note estranee”, ovvero quei suoni non appartenenti all'accordo di volta in volta considerato più importante. Estranee, come se tra un do e un fa diesis ci fosse bisogno di presentazioni, come se per la acribia tassonomica dello sguardo umano fosse impossibile, persino sulla asettica superficie di uno spartito, non rilevare gerarchie e discriminazioni tra lecito ed illecito, familiare ed alieno. E il disagio scivola nell'inquietudine non appena mi rendo conto che sono proprio le note estranee ad attirarmi e a piacermi di più. Del resto se in preda a furore diatonico, in un raptus che potremmo definire di fono-xenofobia, emendassimo la musica da queste note, il risultato sarebbe di una tale noia che le sale da concerto perderebbero anche quei pochi irriducibili musicofili che ancora le frequentano, poiché anche il repertorio più consonante, più radicato nel sistema armonico tonale, trova la propria linfa vitale in quegli elementi di contrasto che sono le dissonanze, e in genere in tutte le asimmetrie e le disarmonie volute dall'autore per far sì che la armoniosa sintesi dell'intero brano non si imponga con monolitica, austera immanenza, bensì attraverso la feconda dialettica tra tensioni e distensioni, tra attese e appagamenti. E anche, ed è questo l'aspetto che più mi intriga, mediante la percezione di un potenziale pericolo, di un rischio da correre, ovvero che la felicità di cui la musica è promessa sia una meta da conquistare ogni volta, e che dunque ogni volta potrebbe anche non essere raggiunta, ogni volta potremmo anche perderci nella selva oscura di modulazioni che non concludono e melodie che non prendono il volo. E la bravura di un compositore, la sua maestria nel gestire questa dialettica, consiste anche nel farci vivere questo travaglio del bello che si crea qui ed ora per il nostro ascolto, nel tenerci fino all'ultimo in una ben calibrata suspense, fino al felice scioglimento dell'intreccio sonoro; e solo se intraprendiamo il periglioso viaggio senza temere sonorità anche selvagge e aspre e forti, solo con questa fiduciosa disponibilità a sorprenderci potremo godere di quei preziosi momenti che la musica ci sa donare: come quando inopinatamente riappare il tema delle Variazioni Goldberg dopo le sue trenta mutazioni, e sembra così diverso dalla prima volta, perché nel corso di questa Odissea musicale Bach squaderna mondi inimmaginati che, oltre a suscitare il nostro meravigliato stupore, risvegliano a ogni passo anche il desiderio di poter ritornare alla Itaca soave e incantata della Sarabanda iniziale. O come quel passo dell'Eroica di Beethoven, nella ripresa del primo movimento, quando l'armonia “sbagliata” che sovrappone Tonica e Dominante è segno e significato insieme di una possibile coincidenza degli opposti, di una esperita concordia tra la vita attiva dell'Eroe e quella contemplativa dell'Artista. Sentendo questo passo durante una prova, l'allievo di Beethoven Ferdinand Ries credette che il cornista avesse anticipato l'entrata, e non poté trattenersi dall'esclamare: “Suona in modo terribile!”, suscitando a un tempo le ire del Maestro e l'ironia dei posteri. Ironia, ritengo, immeritata dall'onesto Ries, che in fondo non aveva tutti i torti: se ci pensiamo bene, in un'arte performativa come la musica, che si realizza appieno solo nella effimera attualità delle interpretazioni, cosa distingue, alle orecchie di un pubblico che non conosce le partiture di cui ascolta le esecuzioni, una dissonanza voluta dal compositore da una stecca dell'interprete? Proprio giocando su questa insolubile ambiguità Mozart scrisse uno dei suoi più incredibili capolavori, il Musikalischer Spass K 522, dove sono previsti strafalcioni di ogni genere, da imputare a seconda dei casi alla asineria di sedicenti compositori o alla imperizia di improbabili virtuosi (memorabile la Cadenza del violino nel terzo movimento). E a parte l'ammirazione per l'esempio mozartiano, il cui geniale straniamento stilistico fa comunque storia a sé, confesso che anche le banali note false, proprio quelle senza alcuna ragione se non l'attimo di distrazione di uno strumentista, o la invalicabile difficoltà tecnica di un determinato passaggio, o l'infausto influsso della signora in terza fila con quel bel vestito viola (sì, c'è ancora chi indulge a simili delicatezze quando si reca a teatro), ebbene, anche queste impreviste e imprevedibili défaillances in realtà mi piacciono, imperfetto mortale qual sono, più di una sterile correttezza da automi, forse perché non riesco a non pensare che quando un musicista sbaglia una nota sta anche rivelando, e forse consapevolmente rivendicando, di essere umano, troppo umano per ambire alla perfezione.
A questo punto, arguta lettrice e arguto lettore, avrete intuito che questo elogio delle stonature, nel suo difendere le ragioni della nostra inemendabile incompiutezza, della nostra incoercibile individualità a dispetto di regole, consuetudini e conformismi, si presta, in modo certo prevedibile ma non per questo meno efficace, a una morale della favola anche extra-musicale: impariamo a essere dissonanti in ogni ambito e in ogni momento della nostra vita; e se tanti, troppi cantano all'unisono, usciamo dal coro, anche a costo di stonare.
Luca Schieppati
NB: Volutamente in questo breve divertissement ho trascurato le dissonanze della dodecafonia, sia perché in essa in realtà non si danno né dissonanze né consonanze, stante la equiparazione dei dodici gradi della scala; sia perché avrei dovuto versare su queste pagine ben più latte di quello richiestomi, fino a farlo arrivare, temo, alle ginocchia. (L.S.)
Iscriviti a:
Post (Atom)